mercoledì 2 giugno 2010

E.R. - pazienti in doppia fila

Recentemente, per ragioni familiari, mi sono trovata a frequentare un reparto del Policlinico di Roma e, da questa forzata frequentazione, ho tratto alcuni spunti che mi fa piacere condividere.
Si tratta di pensieri sparsi che provano ad andare un po’ altrove rispetto alle consuete (purtroppo) critiche che si potrebbero muovere in merito alle importanti carenze organizzative e strutturali del più grande nosocomio d’Europa per sintetizzare le quali basti il titolo di questo post.

Ho trovato estremamente faticosa, come familiare di un ricoverato, la gestione della comunicazione con i medici: tutto sembra lasciato al caso, all'insistenza dei parenti e alle capacità del singolo medico di farsi carico delle situazoni; sarebbe auspicabile che in ogni equipe medica ci fossero un paio di elementi, opportunamente formati,  deputati a comunicare con il paziente stesso e con la sua famiglia in merito al quadro clinico, alle strategie di cura e alle prospettive future, soprattutto quando di prospettive ce ne sono ben poche e sono a raggio corto.
Sembra banale ma non è così scontato che i medici sappiano considerare adeguatamente le implicazioni emotive e psicologiche che la malattia porta con sé e l'impatto che la malattia ha sulla rete familiare.

La capacità di avvicinare situazioni umane molto dolorose senza farsene travolgere emotivamente è sicuramente un punto di arrivo significativo per tutte le persone che per professione toccano il dolore e la caducità della vita umana quotidianamente. Certamente è possibile arrivarci ma non senza fatica e lavorando molto su sé stessi.
Osservando, invece, i giovani medici che mi sono passati accanto in questo tempo ho pensato che alcuni di loro sembrano partire avvantaggiati in questo percorso: l’indifferenza del loro sguardo, la sciatteria dei loro modi e la fredda distanza rispetto a situazioni di dolore e, a volte, di mancato rispetto della dignità in cui versano certi ammalati, non ricordano affatto il frutto di un lento e faticoso cammino.
Sono miei coetanei, potrebbero essere miei amici. Perché sembrano navigare così a loro agio in certo degrado umano?

 Ed, infine, non posso non ricordare quella domenica mattina in cui entra nella stanza un prete con indosso il camice e, alla mano, la valigetta 24ore contenente tutto il necessaire del buon prete di corsia; con un rapido sguardo cerca di comprendere chi dei pazienti sia interessato a ricevere la Comunione, si scaccia la mosca dal naso con un segno della croce fatto alla velocità della luce e, altrettanto rapidamente, si congeda con un sonoro "in bocca al lupo per la salute!". Nulla da aggiungere...


...se non che probabilmente nei ricordi di mio padre rimarrà quel piatto di spaghetti preparato un po' clandestinamente da Fabio, l'infermiere del turno di notte, per lui e per altri pochi pazienti ancora svegli alle undici di sera e quel giovane medico che, per  prepararlo ad una diagnosi difficile da digerire, si siede ai piedi del suo letto e si trattiene a parlare con lui per quasi mezz'ora. 
Questi, sì,  potrebbero essere miei amici.