martedì 6 dicembre 2011

State tranquilli

L' assemblea dei genitori alla scuola (pubblica) di mio figlio si è aperta con una rapida presentazione della maestra di religione (cattolica) che, parlando a grandi linee del programma di quest'anno, ha annunciato rassicurante: "Come forse i vostri figli vi hanno già raccontato, stiamo parlando del Natale e ne parleremo ancora a lungo visto che si tratta di una festa allegra adatta ai bambini. Per quanto riguarda la Pasqua vi voglio dire di stare tranquilli perché nessuno parlerà di morte-crocefissione-resurrezione. Parleremo della Pasqua come della festa della primavera". Silenzio e sorrisi di serena di approvazione. E si passa a parlare della data della prossima gita.


Io sarei stata più tranquilla se avessi sentito che la morte non è un argomento tabù perché fa parte della vita e che se ne può parlare, pefino ai bambini. Nel modo giusto e adatto a loro, ma si può. E, tra l'altro, quale occasione migliore della Pasqua per parlare della morte in una prospettiva di Vita e felicità. O forse vogliamo delegare alla festa di Halloween le risposte al Grande Mistero? 
E poi sappiamo bene che tutti i non detti non solo non impediscono il formarsi di domande nella testa dei bambini ma anzi generano angosce enormi e profondissime.

Questo episodio me ne ha ricordato un altro vissuto alcuni anni fa: all'ultimo incontro di un corso di preparazione al Battesimo le coppie presenti avevano la possibilità di scegliere le letture per il giorno della cerimonia tra una rosa di brani suggeriti dal sacerdote. Tra quelle proposte è stato scartato senza possibilità di appello il capitolo 6 della lettera ai Romani:
 "O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? (....) Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua resurrezione."
Queste stesse parole sono state considerate dai più come "di cattivo gusto in un contesto gioioso", "non adatte ad un battesimo", "troppo tristi" e così via. 
Eppure esprimono un concetto che è il cuore vivo della fede cristiana  e noi non eravamo all'inaugurazione di un locale notturno, eravamo in una parrocchia al termine di un ciclo di incontri sul Battesimo.

Perché allora tutta questa paura di parlare (ai bambini) della morte?

Se accettiamo senza battere ciglio di giocare il jolly della festa della primavera per non parlarne è perché probabilmente siamo noi adulti a non avere risposte e a non accettare di averne una gran paura: del dolore, del distacco dalle persone care, dell'ignoto. Niente di più umano, diffido di chi vanta grandi certezze e non ammette tremori, soprattutto di fronte alla morte. 

Ciò non toglie che anche le nostre non risposte, le nostre tristezze e paure possano essere raccontate ai nostri figli, ovviamente in maniera adeguata alla loro età e alle loro richieste, e fare parte del loro percorso di crescita senza venderci ai loro occhi per ciò che non siamo. La loro testa è già troppo piena di supereroi.

venerdì 2 settembre 2011

Piccoli Buddha crescono


Che tu sia un fervente frequentatore  di gruppi parrocchiali o un fricchettone da centro sociale (o, magari, entrambe le cose contemporaneamente), un affermato professionista o un precario squattrinato, che tu creda fermamente nel valore della sobrietà o i tuoi usi siano eccessivi come la giacca di paillettes di un comico di avanspettacolo, molto probabilmente non farai mancare a tuo figlio, almeno una volta nella vita, una festa di compleanno 'all inclusive'.

Fino a circa una decina di anni fa una festa iniziava con l'arrivo del  primo invitato che, salutando il festeggiato, gli  porgeva un pacchetto ed aspettava, curioso, di vedere l’espressione che l’amichetto avrebbe fatto alla vista del regalo:  poteva essere uno scortese ma sincero ‘ce l’ho già’ oppure un timido  ‘grazie’  o ancora  un entusiasta ‘che figo!! Mammaaa vieni a vedereeee!!!’ o magari una faccia un po’ delusa.

Oggi no. Se sei invitato ad una festa di bambini  devi sapere che non ci sarà nulla di umano né di poetico nel gesto del dono. Per vedere scartato il tuo pacchetto dovrai, infatti, aspettare il tribale momento dello SCARTALACARTA, trionfo dell’opulenza e, al contempo, dell’istigazione all’invidia.

Il diseducativo (a mio avviso, si intende) rituale solitamente si svolge così: il festeggiato si pone più o meno al centro di un emiciclo di compagni che lo incitano ad aprire uno ad uno la montagna di pacchi che amorevolmente la mamma scodinzolante e fiera gli porge dopo aver letto sulla busta il nome del benefattore. In mancanza dell’apposizione del nome si procede con il 'riconoscimento della busta', fatto con una specie di ‘confronto all’americana’. Se vedete qualcuno che in questo momento sgattaiola verso il buffet molto probabilmente è venuto a mani vuote (ha tutta la mia stima).
Il bambino, freneticamente, mostra quanto ricevuto in dono alla platea urlante senza, ovviamente, ringraziare né aver capito bene chi sia l’artefice di questo o quel regalo.

Al termine di questo cerimoniale, come da copione, riprendono i festeggiamenti, sempre uguali negli anni e rigorosamente a pagamento: animatori dal sorriso plastificato (che tradisce spesso il desiderio di mollare quattro ceffoni ai pargoletti fuori controllo e, spesso, maleducati), che si barcamenano tra uno spettacolo di marionette, qualche magia e un po’ di  baby dance nella speranza (da parte mia) che prima o poi qualcuno decida di liberare tra i festanti frugoletti un vero alligatore che possa finalmente porre fine all’annosa questione relativa al verso del coccodrillo.

Insomma, chi di noi vorrebbe rivedere lo stesso film dieci volte in un mese? Immagino quasi nessuno. E allora perché ci sembra normale che i nostri figli frequentino feste di compleanno in cui tutto ciò che accade è già noiosamente noto ancor prima di iniziare?

Alla fine della festa, poi, i genitori del piccolo Buddha di turno cercano con fatica una soluzione per il trasporto del carico dei regali fino a casa: affittiamo un camion dei traslochi? Facciamo dieci viaggi? Ci serviamo degli sherpa? E se invece, più banalmente, chiedessimo agli invitati di non portare nulla perché nostro figlio è già pieno di giochi e vestiti,  i parenti più stretti gli hanno già fatto dei regali di tutto rispetto e poi, in fondo, sarebbe felice anche solo di fare festa in compagnia degli amichetti? E se individuassimo un oggetto che nostro figlio desidera tanto e facessimo convogliare su di esso il contributo dei partecipanti?
Insomma basta un po’ di fantasia per trovare un’alternativa al “così fan tutti” e, soprattutto, basta volerlo.

Qualcuno potrebbe reputare eccessiva la contrarietà che esprimo rispetto ai comportamenti descritti.
Il fatto è che essi, in quanto gesti sociali, sono dei segni e, come tali, sarebbe bello che fossero carichi di significato, scelti e presentati con la cura che meritano da parte delle famiglie.

Inoltre, questi modi standardizzati di agire altro non sono che una rappresentazione sintetica del modello educativo predominante oggi, tendente a generare persone autoreferenziali, incapaci di godere del ‘chi’ ma solo del ‘cosa’ e, per di più, con scarsa attitudine all’utilizzo della fantasia come risposta alle situazioni della vita. In sintesi, degli infelici.

A volte penso quanto sarebbe davvero divertente e formativa per i bambini una festa in cui anche i genitori si mettono in gioco, nel senso letterale del termine, senza bisogno di animazione a pagamento. In fondo, si sa, i piccoli imparano a comportarsi, a relazionarsi e anche a divertirsi osservando il comportamento di noi adulti, al di là dei discorsi precotti che tendiamo a fargli. E poi avrebbero finalmente qualcosa da raccontare!

Non me ne vogliano parenti, amici e conoscenti che dei criticati rituali nel tempo mi hanno fatto spettatrice. Sapete, tra i propositi che solitamente si fanno per la nuova stagione al rientro dalle ferie, quest’ anno ho messo in pole position di dire un po’ più spesso ciò che penso.


sabato 28 maggio 2011

Era proprio necessario?

Si è detto e scritto tanto intorno alla beatificazione di Giovanni Paolo II e, in questo mare magnum di notizie, testimonianze, racconti biografici e motivazioni teologiche, c’è da chiedersi quale sia il nucleo essenziale della santità di quest'uomo e, soprattutto, quanto l’aspetto miracolistico ne costituisca il fondamento.

Vado a cercare la risposta nelle parole pronunciata da Benedetto XVI proprio durante l' omelia della Messa di beatificazione: "Il suo messaggio è stato questo: l’uomo è la via della Chiesa, e Cristo è la via dell’uomo".

E poi, forse l’elemento emotivamente più forte e popolare, soprattutto negli ultimi anni del pontificato, "la sua testimonianza nella sofferenza".

Proprio quell’ abbracciare la croce del limite fisico è alla base della sua vicinanza affettiva con tanta gente che lo ha visto vivere la malattia con dignità e caparbietà, con tenerezza e rabbia. Quanto mi colpisce, oggi più di allora, il pugno battuto sul leggìo durante l'Angelus per la frustrazione di non riuscire a parlare...

Alla luce di questo, dunque, la guarigione dal Parkinson di Suor Marie Simon-Pierre era proprio necessaria per suggellare la santità di Giovanni Paolo II? E quale è, più in generale, il senso del miracolo come condizione indispensabile nel percorso di canonizzazione?

La testimonianza della suora in fondo non descrive altro che lo sgomento, la paura, la debolezza di una qualsiasi persona che, colpita dalla malattia, vede la sua vita prendere un corso di sofferenza e menomazione: è la malattia, è il calice che ciascuno di noi vorrebbe vedere allontanato dalla propria bocca.

Non discuto la veridicità di ciò che è stato raccontato e, credo, comprovato con indagini approfondite. Mi chiedo, però, cosa può aggiungere questo aspetto miracolistico alla santità dell’uomo. E poi, una fede matura può nutrirsi dell'incantesimo?

Trascinarsi giorno dopo giorno sotto il peso di una croce che a volte sembra insostenibile e che solo il profondo e intimo rapporto con Cristo può contribuire a sopportare fino a chiedergli la forza di rimanere lì, pur non comprendendone il senso, piuttosto che essere esonerato dalla prova, questo sì, un grande miracolo.

E poi, lo dice anche Jovanotti nel testo di una sua canzone, la cura è spesso nascosta dentro la malattia. A me questa sembra una grande verità.


venerdì 1 aprile 2011

Ti piace il gusto caramello?

Ho appuntamento con un amico di fronte alla gelateria.
Mentre aspetto, una macchina si accosta al marciapiede e si ferma. Dentro un uomo e una donna sulla sessantina avanzata, sembrano persone semplici.
Credo proprio che siano marito e moglie, di quelli collaudati dagli anni e dalle esperienze familiari. Sorprendentemente (ancora) si guardano in faccia quando si parlano.
Probabilmente hanno voluto togliersi lo sfizio di un buon gelato fuori orario, alla faccia del colesterolo un po' altino all'ultimo controllo.

Lei scende ed entra in gelateria, lui un po' sornione rimane in macchina.
Dopo qualche secondo lei esce e, a dispetto di chi pensa di possedere la conoscenza assoluta dell'altro e dice del proprio marito "per me non ha segreti", "lo capisco al volo", "so tutto di lui" e bla, bla, bla, gli chiede a voce alta "Franco, ti piace il gusto caramello? Te lo faccio mettere?"
No, non gli piace.
Lei poi esce con due coni di tutto rispetto e si vivono vicini e complici il loro momento godereccio.
Applaudo con gli occhi e ringrazio col cuore per questa scena che, non so bene perché, è stata una piccola lezione.

mercoledì 30 marzo 2011

Non lo fo per piacer mio.....

Un ricerca durata anni ha messo in evidenza una certa correlazione tra religione e obesità.

In prima battuta la notizia si presta a facile ilarità ma io, che oltre al corpo ho anche l'anima un po' sovrappeso, non mi lascio sfuggire un'occasione così appetitosa per esprimere un sospetto.

Premesso che la ricerca di cui sopra sembra non aver trovato le motivazioni alla base di questo trend, io voglio provare ad avanzare delle ipotesi.

In tutti gli anni in cui ho frequentato l'ambiente parrocchiale, da ragazzina ad adulta, non ricordo di aver sentito parlare con adeguata enfasi dell'importanza della cura di sé e del proprio corpo parallelamente all'approfondimento spirituale.

Ho dovuto "bazzicare" altri luoghi per sentirmi dire che corpo e anima sono un tutt'uno inscindibile e che queste due componenti non possono evolversi separatamente, che il corpo non è solo uno strumento con cui "non fare" ma è un luogo da abitare e vivere e che non può essere ignorato nel difficile percorso della conoscenza di sé.

Il nostro corpo parla di noi e va ascoltato come vanno ascoltate le emozioni e le inquetudini dell'anima.

E' importante dire ai ragazzi (e, purtroppo, anche a molto adulti) che nessuna espressione del nostro corpo può essere di per sé stessa fonte di vergogna o di colpa ma tutto va contestualizzato, interpretato e compreso nell' unicum della persona e che anche la meditazione più alta non può prescindere dalla corporeità.

So che esistono dei contesti di nicchia dove tutto ciò viene detto e me ne rallegro tuttavia si tratta ancora di eccezioni e, a riprova di ciò, basti osservare che le madri di famiglia "più sante" che circolano in ambiente parrocchiale sembrano esseri mitologici metà uomo e metà novizie. Da lontano si distinguono a fatica dai loro mariti e da vicino ti viene voglia di inseguirle con una striscia depilatoria perché possano riprendere le sembianze di donna. Anzi di femmina.

Il loro aspetto lascia pensare che abbiano messo da tempo sotto chiave la loro parte sessuata.
Sarebbe interessante comprendere perché l'hanno fatto e anche quanto dolore queste scelte, più o meno conscie, portano nelle loro vite e nelle loro relazioni familiari.

foto da Flickr

venerdì 11 marzo 2011

Carta, penna e calamaio

E' ufficiale: le nanotecnologie sono una copertura, siamo ancora al tempo degli amanuensi.

Innumerevoli gli uffici della Pubblica Amministrazione con i quali negli ultimi anni sono entrata in contatto: dalle ASL al Tribunale dei Minorenni, dai Servizi Sociali all' INPS, dall' Anagrafe all' Agenzia delle Entrate.

Ciò che con rammarico ho constatato è che, nella nostra "epoca www" in cui il digitale la fa da padrone e i RIS di Parma dichiarano che i bastoncini di pesce che ha mangiato la vittima prima di essere uccisa erano scaduti,  io non posso inviare documentazione ad un ufficio pubblico o fissare un appunatamento con un dirigente tramite mail.
E non perché i pubblici dipendenti non siano dotati di casella di posta elettronica ma perché spesso non la utilizzano (molti addirittura dichiarano di "non avere dimestichezza" con lo strumento).

A volte penso che certi impiegati abbiano il bisogno fisico del sentir frusciare le scartoffie sulla scrivania e godano del suono sordo del timbro che, in due tempi, batte sul tappetino di inchiostro e sul documento da nobilitare.

Il massimo che si può ottenere dai pochi impiegati "d'avanguardia" è l'accettazione dell'invio di un fax. Per inviarlo, però, bisogna essere degli inguaribili ottimisti perché nessuno ci assicura che, in prossimità dello strumento ricevente, ci sia vita.
La stanza potrebbe essere utilizzata come deposito di sedie rotte o  la persona che magari per caso passa di lì potrebbe tirar via la presa dal muro in preda al panico per il sibilo a lei ignoto che lo strumeto emette.
Nella migliore delle ipotesi quel foglio inviato lo prenderà qualche impiegato dal cuore ecologico che lo riciclerà per far disegnare il proprio bambino a casa.

Per non parlare del telefono che può squillare per ore senza che nessuno risponda e, per un intuito molto personale che col tempo si acquisisce, qualcosa ti dice che qualcuno dall'altra parte c'è. Probabilmente ha solo fatto un corso di meditazione zen per riuscire ad ignorare il trillo insistente e continuare a disquisire con la collega di come sia meglio utilizzare la cipolla al posto dell' aglio per un sughetto all'arrabbiata.

Per ritirare una convocazione del Tribunale mi sono dovuta recare presso la Casa Comunale dove un signore dall' aria omerica mi ha fatto firmare in un registro di dimensioni abnormi tipo diario di San Pietro all'accettazione delle anime in Paradiso per prelevare un banalissimo foglio A4 (a questo punto mi saerei aspettata un rotolo di pergamena) in cui mi si chiedeva di presentarmi tale giorno a tale ora nell'ufficio del giudice tal dei tali.

Quando abbiamo aperto la pratica di adozione al Tribunale dei minori di Roma, tutta la documentazione doveva essere presentata in originale da ciascun coniuge e immaginate che tenerezza quando sotto i nostri occhi l'impiegata allo sportello ha riposto le scartoffie rispettivamente in una cartellina rosa e in una celeste!

Insomma, se volete capire veramente cos'è un acceleratore di particelle non serve andare al Cern di Ginevra, basta avere bisogno di un certificato medico legale da richiedere alla Asl di zona e vi assicuro che le vostre "particelle" gireranno alla velocità della luce.
Le mie ancora non accennano a rallentare.

martedì 8 marzo 2011

Chi glielo dice?

Chi glielo dice a mio figlio che quando avrà 14 anni non potrà uscire quattro sere a settimana per mangiare la pizza con gli amici, che ogni tanto è giusto fermarsi, magari riposare un po', regalarsi un tempo di noia da riempire con pensieri liberi?


Chi glielo dice che il silenzio non fa paura, anzi ci aiuta ad ascoltare noi stessi?

Che è meglio rimanere in piedi per la forza interiore e l'equilibrio conquistati a fatica nel tempo e non per forza centrifuga, che ogni tanto bisognerà anche rompersi le palle a fare i compiti.


Forse glielo diranno le maestre della scuola materna dove si organizzano quasi tutti i giorni feste di ogni sorta senza soluzione di continuità all'insegna del magna magna e del non so nemmeno che si festeggia ma l'importante è fare casino.


Oppure glielo diranno le zelanti mammine dei suoi compagni di classe che mi inondano la casella postale con mail in cui fanno a gara su chi porta cosa per le povere creature che non sia mai non mangiano.


Chi glielo dice che non è giusto né sano non toccare nulla del pasto che viene servito a mensa perché si ha la pancia piena di patatine, succhi di frutta e merendine? Glielo dovrebbero dire le mammine di cui sopra che indicono riunioni perché qualcuno verifichi che il cibo della mensa è veramente biologico. 


Io vorrei dirgli che festeggiare il compleanno di un amichetto è un modo per dire che sei felice che lui sia nato, che sei felice di averlo conosciuto. Che la tua vita non sarebbe la stessa senza di lui. 


Io vorrei dirgli che c'è un tempo di ordinarietà e che ci sono momenti di solennità, che le cose belle si celebrano con cura e attenzione, che le feste segnano i fatti importanti della vita.


Io vorrei dirgli che fare un regalo per un amico non è mamma che mette una quota nel mucchio ma è chiedersi cosa gli potrebbe fare piacere oppure come potremmo sorprenderlo.

Io glielo dico. 
Non so se la mia voce riuscirà ad arrivare alle sue orecchie nonostante il frastuono. 
Ma io glielo dico.

sabato 1 gennaio 2011

Non ho mai avuto dubbi




SMS scambiati tra due amici di una vita, ultrasettantenni, in un momento particolarmente doloroso della vita di uno di loro.
La sintesi dell' Amicizia, quella vera:

'Ti sono sempre vicino, L.'

'Sei veramente un caro amico, non ho mai avuto dubbi. Ti abbraccio, P.'