mercoledì 24 febbraio 2010

Quando la forma è sostanza

Sono sempre stata convinta che dal comportamento all’interno delle quattro mura domestiche si possano trarre importanti spunti per definire la nostra verità di persone,  indipendentemente da quella che è l’immagine che ciascuno di noi si sforza di portare all’esterno: osservatorio privilegiato hanno dunque le mogli e i mariti.

Ma un altro importante indizio che ci parla del nostro modo di stare al mondo e di come intendiamo la vita lo fornisce il modo in cui salutiamo chi incrociamo sulla nostra strada il lunedì mattina. Parlo del lunedì perché noto essere il giorno della settimana psicologicamente più faticoso e quello cui anche il rischio di infarto subisce un’impennata,  probabilmente legata all’essere di nuovo immersi negli impegni e nelle fatiche di una settimana ancora tutta da affrontare. Non voglio negare le fatiche che nelle svariate forme che assumono ci riguardano un po’ tutti,  però non mi piace pensarle come delle attenuanti al reato di omissione di saluto. Ci sono persone che entrando nel posto di lavoro biascicano dei suoni che solo in via ipotetica possono interpretarsi come un “buon giorno” o un “ciao”,  rigorosamente senza punto esclamativo; questo lo si può intuire dal tono,  ma che molto probabilmente potrebbero essere un “mi date tutti sui nervi solo a guardarvi”,  oppure “la vostra presenza mi ricorda che devo trascorrere le prossime otto ore in un posto che detesto con gente che non sopporto”. Il siparietto, cambiando luoghi e dettagli,  si può ripetere in diverse altre occasioni: nell’androne del palazzo in cui si abita quando capita di uscire in contemporanea alla signora del primo piano o a scuola dei propri figli quando si incrociano altri genitori.
E pensare che il saluto è un po’ come l'ingresso di certe case. E’ un luogo ideale di passaggio che favorisce il nostro ambientarci nella relazione con l’altro. Posso fermarmi all’ingresso e andar via o posso entrare negli altri ambienti della casa ma non posso passare in camera da letto senza essere passato per l'ingresso. A meno che io non sia Lupin.

Amo approfondire l’etimologia delle parole per varie ragioni,  di cui magari dirò in un’altra occasione. La parola CIAO poggia le sue radici nella Venezia di fine ‘700,  dove salutare in questo modo significava ‘sono tuo schiavo’, ‘servo  tuo’, ‘ai tuoi ordini’. Mi piace intenderlo quindi come una forma di stima, di riconoscimento nell’altro che incontro, di un potenziale valore per la mia vita. Nulla a che vedere con una prostrazione mortificante ovviamente.

Insomma  mi verrebbe da urlare al muso lungo di turno: “Guarda che ciò che stai schifando,  evitando di guardarmi negli occhi quando mi incroci, non sono io né il tuo lavoro né le fatiche che gravano sulle tue spalle,  ma la tua vita”.

Quando alcuni anni fa ho compreso che non è possibile godere del riposo, dello svago, della festa se prima non ho benedetto l’intera mia storia passata e l’intera mia esistenza presente elevandola tutta a dignità di Vita Piena, persino quella che prende forma tra il lunedì ed il venerdì, il mio approccio ai fatti e alle persone si   è rinnovato e arricchito di sostanza. Una sostanza che non può non esprimersi anche nella forma.

foto da lintmachine