giovedì 23 dicembre 2010

Giochi di ruolo

‘I desideri dei bambini mettono ordine al futuro' e 'I bambini ci insegnano, ascoltiamoli'. Con tutto l'impegno e la poesia che ho a fatica rastrellato nell'anima mia, non sono riuscita a non storcere il naso davanti ai nomi delle due liste di genitori che si candidavano al consiglio scolastico (di scuola materna).

E noi adulti che parte facciamo in questa farsa? Gli spettatori plaudenti?

A soli due giorni dal Natale provo ad immaginare il comportamento di Giuseppe e Maria all’interno della grotta.
Vedo gesti di accudimento ("lo avvolse in fasce"), vedo lo sguardo contemplativo di Maria che esprime la consapevolezza di avere tra le braccia una creatura speciale, da accogliere e, allo stesso tempo, offrire ("lo depose in una mangiatoia").
Protezione, attenzione, cura.  Ho sempre pensato a Maria come una donna sapiente, in grado di vigilare a distanza su suo figlio, di meditare, di osservare. E fare. 
Giuseppe è un padre che, con umiltà e presenza, favorisce la nascita della nuova famiglia e vigila operoso su Maria e sul nuovo nato. Un Uomo, insomma. E una Donna. Merce rara di questi tempi.
Tra di loro poi immagino poche parole, a volte silenzi. Silenzi che non fanno distanza perché nascono dal sapere che, a volte, tante parole non aggiungono tanto valore. L'uno sente la presenza dell'altro e questo basta.

Credo profondamente che l'atteggiamento, i gesti, i ruoli della Santa Famiglia possano esserci d'aiuto più di un trattato di psicologia dinamica.
In un tempo come il nostro in cui molte certezze familiari sembrano saltare per aria in occasione della nascita di un figlio, mi interrogo sui ruoli dai confini poco chiari di mogli, mariti, figli, coppia, famiglia ed ho la presunzione di credere che né Giuseppe né Maria si sarebbero sentiti rappresentati da quelle liste. 


Sereno Natale a tutti gli amici di questo blog!

domenica 3 ottobre 2010

No limits

Nel blu profondo e L'ultimo abbraccio della montagna, due libri, due belle storie d'amore, due epiloghi tristi, due sport tanto diversi ma tanto uguali, due morti annunciate. Ma una sola grande passione: la spinta verso l'estremo delle capacità umane, la voglia di  percorrere strade non ancora battute. 

Pipin Ferreras, cubano, campione mondiale di apnea, descrive con grande dolcezza l'amore tra lui e sua moglie Audrey, vissuto nella condivisione, ai limiti dell'ossessione, per il mare e le sue profondità, per l'apnea e per la  spinta a superare i record mondiali anche da loro stessi stabiliti. E proprio per tentare l'ultimo record Audrey trova la morte.
"Per noi l'apnea non era solo un mezzo per guadagnarci da vivere, ma un vero e proprio modo di vivere. Audrey la definiva un'esperienza extracorporea, perché, diceva, scendendo negli abissi dimenticava di essere una creatura umana fatta di carne, ossa e sangue. Quando si immergeva si sentiva energia pura: una sorgente di luce".  
E ancora: "Audrey e io eravamo molto felici nell'azzurro, silenzioso, mistico mondo sottomarino. Eravamo nati e cresciuti ai capi opposti del mondo, in paesi lontani migliaia di chilometri, ma entrambi avevamo maturato molto presto un insolito, tenace amore per il mare. Quell'amore era divenuto sempre più forte e, negli anni a venire, sarebbe aumentato ancora di più. Subito prima di immergerci, quando ci saturavamo di ossigeno iperventilando, ci sentivamo in certo modo più vicini al nostro vero io. (...) Sarei poco sincero se non ammettessi che nell'esperienza c'era anche un elemento di dipendenza. "A volte è un peccato risalire" diceva Audrey, e capivo benissimo che cosa intendesse dire".


E poi c'è Silke Unterkircher che nel suo libro racconta l'incontenibile passione del compagno Karl, padre sei suoi tre figli,  per l'alpinismo e, in particolare, per la scoperta di vie nuove per la salita. 
Proprio il tentativo di aprire una via non ancora battuta su una delle pareti più pericolose del Nanga Parbat (la nona montagna più alta della Terra nella catena dell' Himalaya) gli è stato fatale nel luglio 2008.
"Karl amava soprattutto cercare vie esclusive, mettersi alla prova dove nessuno era mai passato. Le salite in libera sulle vie tracciate in artificiale non facevano per lui. Era invece uno di quegli alpinisti che sanno intuire, là dove altri non vedono nulla. Uno capace di lanciarsi sempre in nuove varianti".


Leggendo questo testo non è possibile non lasciarsi stupire dallo sguardo di comprensione con cui Silke accoglie la realtà del suo compagno, come si accolgono il colore dei suoi capelli e il modo di sorridere.
"Sapeva, anzi sapevamo, i pericoli cui stava andando incontro. Adesso non posso più stringerlo a me, lo so. Ma non mi sono mai pentita di averlo lasciato andare". 
Chi di noi mogli borbotta in vista della partita settimanale di calcetto del marito dovrebbe leggerlo assolutamente.


Un passione condivisa nelle viscere e una passione compresa con la testa e con il cuore. Due discipline e due vicende umane che fino a poco tempo fa avrei definito incomprensibili, frutto dell'incoscienza e del poco rispetto per la vita. Ho letto i libri. Non la penso più così.

lunedì 30 agosto 2010

Ristrutturazione di interni

Mi piacciono le ristrutturazioni. Mi piacciono soprattutto metaforicamente parlando. Mi ricordano che raramente i progetti sono immutabilmente validi fin dal loro concepimento.

Lo slancio e il desiderio di costruire qualcosa di bello ci muovono verso un’idea da realizzare e poi, già quando si inizia a metterla in piedi, ci si accorge di dover fare i conti con una realtà spesso diversa da quella che si era immaginata. E poi via, si costruisce. E dopo le fatiche della realizzazione si guarda con orgoglio la casa ultimata e non si vede l’ora di abitarla.

Costruire. Manutenere. Ristrutturare. Sono i verbi dell’amore. Delle relazioni umane, tutte.

Se penso al mio matrimonio i ricordi più belli non si collocano all'inizio, alla fase di progettazione e realizzazione. Era un tempo in cui  l'emotività e la capacità di ponderare le scelte non coesistevano ancora in un buon equilibrio. 


Guardo invece con infinita tenerezza alle fatiche della manutenzione, del far reggere la costruzione in tempi di scosse sismiche di intensità variabile, al tempo in cui si aggiustano i rubinetti che perdono e, talvolta, non si può fare a meno di richiedere l'intervento dell' idraulico.

E se la manutenzione mi riporta al nobile operare quotidiano contro l’usura del tempo, ancor più mi commuovo pensando ad oggi, tempo di ristrutturazione (anche materiale)  in cui si uniscono in un connubio poetico lo slancio del rinnovare con la cura del conservare. 


Ma lo stupore più grande è accorgermi che tanti oggetti che nel tempo ho disprezzato o che ho creduto mi fossero stati imposti oggi mi piacciono e "li scelgo" mentre altri, che ho creduto essere espressione del mio gusto personale, oggi non mi corrispondono affatto e vorrei disfarmene (tranquilli, non mi riferisco a mio marito). 


Insomma, mi sembra di raccogliere ora più che in altri tempi i frutti buoni delle fatiche evolutive individuali e quello che è stato a volte un disarmonico stridore ora è danza.


Dimenticavo il quarto verbo: abitare.

mercoledì 2 giugno 2010

E.R. - pazienti in doppia fila

Recentemente, per ragioni familiari, mi sono trovata a frequentare un reparto del Policlinico di Roma e, da questa forzata frequentazione, ho tratto alcuni spunti che mi fa piacere condividere.
Si tratta di pensieri sparsi che provano ad andare un po’ altrove rispetto alle consuete (purtroppo) critiche che si potrebbero muovere in merito alle importanti carenze organizzative e strutturali del più grande nosocomio d’Europa per sintetizzare le quali basti il titolo di questo post.

Ho trovato estremamente faticosa, come familiare di un ricoverato, la gestione della comunicazione con i medici: tutto sembra lasciato al caso, all'insistenza dei parenti e alle capacità del singolo medico di farsi carico delle situazoni; sarebbe auspicabile che in ogni equipe medica ci fossero un paio di elementi, opportunamente formati,  deputati a comunicare con il paziente stesso e con la sua famiglia in merito al quadro clinico, alle strategie di cura e alle prospettive future, soprattutto quando di prospettive ce ne sono ben poche e sono a raggio corto.
Sembra banale ma non è così scontato che i medici sappiano considerare adeguatamente le implicazioni emotive e psicologiche che la malattia porta con sé e l'impatto che la malattia ha sulla rete familiare.

La capacità di avvicinare situazioni umane molto dolorose senza farsene travolgere emotivamente è sicuramente un punto di arrivo significativo per tutte le persone che per professione toccano il dolore e la caducità della vita umana quotidianamente. Certamente è possibile arrivarci ma non senza fatica e lavorando molto su sé stessi.
Osservando, invece, i giovani medici che mi sono passati accanto in questo tempo ho pensato che alcuni di loro sembrano partire avvantaggiati in questo percorso: l’indifferenza del loro sguardo, la sciatteria dei loro modi e la fredda distanza rispetto a situazioni di dolore e, a volte, di mancato rispetto della dignità in cui versano certi ammalati, non ricordano affatto il frutto di un lento e faticoso cammino.
Sono miei coetanei, potrebbero essere miei amici. Perché sembrano navigare così a loro agio in certo degrado umano?

 Ed, infine, non posso non ricordare quella domenica mattina in cui entra nella stanza un prete con indosso il camice e, alla mano, la valigetta 24ore contenente tutto il necessaire del buon prete di corsia; con un rapido sguardo cerca di comprendere chi dei pazienti sia interessato a ricevere la Comunione, si scaccia la mosca dal naso con un segno della croce fatto alla velocità della luce e, altrettanto rapidamente, si congeda con un sonoro "in bocca al lupo per la salute!". Nulla da aggiungere...


...se non che probabilmente nei ricordi di mio padre rimarrà quel piatto di spaghetti preparato un po' clandestinamente da Fabio, l'infermiere del turno di notte, per lui e per altri pochi pazienti ancora svegli alle undici di sera e quel giovane medico che, per  prepararlo ad una diagnosi difficile da digerire, si siede ai piedi del suo letto e si trattiene a parlare con lui per quasi mezz'ora. 
Questi, sì,  potrebbero essere miei amici.

martedì 20 aprile 2010

Quanta fretta, ma dove corri, dove vai?



"Il pericolo più grande nella vita di un adulto è permettere che le cose urgenti non lascino spazio a quelle importanti" (Anonimo)                                                                            
                                                                     foto di Alessandro Pinna 

domenica 11 aprile 2010

Perché la strega è cattiva?

Ho conosciuto la storia di Kirikù alcuni anni fa. 
Si tratta di un cartone molto ben fatto che si presenta già al primo impatto come qualcosa di nuovo rispetto alle solite usate e abusate storie dei supereroi e Co.
Ma non è (solo) per invitarvi a farlo vedere ai vostri figli o nipoti che ne parlo.
Il ricco simbolismo delle vicende raccontate potrebbe rappresentare per noi adulti uno spunto interessante per riflettere sul nostro modo di vivere le relazioni.

Provo in poche parole presentare la storia:
In Africa, gli abitanti di un piccolo villaggio di capanne  sono terrorizzati dalla strega Karabà, donna malvagia che da tempo compie ogni malefatta contro di loro. Kirikù, bambino illuminato, impegna tutte le sue energie per aiutare le persone del suo villaggio a risolvere i problemi causati dalla strega, ma non cessa mai di chiedersi in modo incalzante "PERCHE' la strega è cattiva?".
La risposta a questa domanda la fornisce il nonno, che incarna la saggezza di chi ha compreso il senso del vivere e ci presenta la possibilità di comprendere la realtà dell'altro andando oltre ciò che appare: “La strega Karabà soffre. Soffre giorno e notte perché degli uomini le hanno conficcato nella schiena una spina avvelenata”.

I comportamenti delle persone che più ci feriscono altro non sono che atteggiamenti difensivi  rispetto ad un dolore radicato nei livelli più profondi dell' anima. 
Tendiamo tutti a celare le nostre “spine” perché farlo ci renderebbe vulnerabili e quindi deboli. Ma, se di fronte alle meschinità di chi ci sta accanto, facessimo lo sforzo intellettuale e spirituale di capire dove esse originano non potremmo poi non abbracciare un atteggiamento misericordioso, nel senso che l’altro, facendomi da specchio, mi rimanda alle mie miserie e ciò dovrebbe indurmi a comprendere prima che giudicare senza appello.

E' per questo che amo conoscere l'etimologia delle parole: perché mi aiuta a comprendere il loro vero, intimo significato attraverso lo studio della loro origine, ossia del loro processo di formazione spesso ricostruito dagli studiosi sulla base di ipotesi e percorsi non sempre lineari.
Se riuscissi ad applicare questo approccio alle persone avrei lo sguardo più luminoso e meno rughe sulla fronte. Forse.

lunedì 29 marzo 2010

No Martini?...no party...

Mi piacerebbe avere sotto mano il testo integrale dell'intervista che il cardinal Martini ha rilasciato al settimanale austriaco 'Presse am Sonntag': mi piacerebbe conoscere il tedesco a menadito per tradurla fedelmente ma, più di tutti, mi piacerebbe ascoltare con le mie orecchie dalla voce del cardinal Martini se quanto riportato dalle maggiori testate giornalistiche ( ilsole24ore , Corriere della Sera , Repubblica , rainews24) risponde a verità. In tal caso urlerei il mio sdegno.
Mi riferisco all'immediata correlazione riportata dai nostri giornali tra la questione dei preti pedofili e la possibilità di rivedere l'obbligo del celibato per i sacerdoti. Non penso ci siano molte parole da spendere, se non che del celibato dei preti se ne può parlare, perché no?
E' però assurdo pensare che l'origine (attenuante?) degli atti compiuti possa risiedere nel bisogno sessuale di alcuni preti rimasto insoddisfatto. Ed è oltretutto offensivo far passare il concetto della donna-moglie che trova il suo senso nel contenere le energie sessuali dell'uomo-prete. A questo punto rispolvererei il sano vecchio "fai da te"...
La questione è molto più ampia e penso che il cardinal Martini lo sappia bene. Si è mostrato in più occasioni una persona illuminata in grado di parlare di Cristo e del Vangelo in relazione alla realtà del nostro tempo.
Mi auguro che le dichiarazioni riportate dalla stampa suscitino il clamore necessario ad aprire un dibattito fertile e a permettere una replica degna da parte di Martini.

Già a poche ore di distanza vengono riportate dai giornali le osservazioni del cardinale tedesco Walter Kasper che, rispetto alle dichiarazioni di cui sopra, afferma che  "di sicuro il celibato non ha nulla a che vedere con gli abusi sessuali del clero sui minori" e parlarne è una "strumentalizzazione". Chiamare in causa il celibato è un vero e proprio "abuso degli abusi". Aggiunge poi che il celibato "conserva intatto il proprio senso, quindi non c'e' motivo per modificare lo stato delle cose. Né tanto meno è saggio discuterne sull'onda dei casi di pedofilia".

Sono aperte le danze.

mercoledì 24 marzo 2010

Prego, dopo di lei....

In fila alla cassa del supermercato, davanti a me cinque persone. Dietro di me due signori di mezza età dall'aspetto piuttosto interessante, un po' intellettualoidi, un po' fricchettoni.

-Sono veramente scoraggiato dal momento politico che stiamo vivendo, è scandaloso! Non se ne può più di subire le ingiustizie di uno che crede di essere il padreterno e calpesta i diritti della gente!
-Hai veramente ragione, io sono arrivato a un livello di esasperazione tale che non riesco neanche più a vedere il telegiornale....l'unica cosa che ci rimane da fare è manifestare contro: scendere in piazza e farci sentire!

Nel frattempo apre la cassa vicina e, invece di rispettare l'ordine pregresso,  i due "socio-filosofi" si fiondano al primo posto della nuova fila, ben guardandosi dal compiere un piccolo gesto che poteva trovare la sua radice nel senso di giustizia o più semplicemente nel buonsenso (che parolone!) oppure nel ricordo di antiche gesta di cavalleria o storie di amor cortese.

Io penso: se ora manifesto il mio disappunto e provo a spiegare perché ho sentito di aver subito un' ingiustizia, riuscirò a esprimere il concetto banale ma, nonostante ciò, scarsamente applicato che persino gli ideali più alti valgono niente se rimangono parcheggiati "in piazza" e non entrano nella vita spiccia? Che finché siamo tutti impegnati a guardarci i nostri miseri vantaggi senza dare espressione - a qualsiasi livello- ai valori in cui diciamo di credere, risuoniamo come un bronzo vuoto?
Non so perché ma ho la sensazione che il massimo che potrei ottenere, ma non ci spero né penso sarebbe un gran successo, potrebbe essere riuscire a pagare le mie quattro cose prima di loro.
Forse sbaglio ma taccio.


foto da 12deadpixels

mercoledì 17 marzo 2010

Sono nata il ventuno a primavera....

Ho letto la biografia di Alda Merini scritta dalle sue figlie, la vita della poetessa vista attraverso gli occhi di chi l'ha vissuta come madre (www.aldamerini.it). 
Mi sembra commovente che queste quattro donne abbiano voluto condividere il ricordo della loro mamma e mi sembra ancora più bello che lo abbiano fatto a distanza di alcuni mesi dalla sua morte. 
Il ricordo, come la morte, ha bisogno di sedimentare, di appoggiarsi sulla nostra anima e di farsi cullare dolcemente come una foglia sulla superficie di uno stagno. Questa mi sembra l'idea che le figlie forniscono del loro rivivere quanto è stato vissuto. Ed è doveroso ricordare che la vita di Alda Merini, e la loro di conseguenza, è stata un quadro a tinte forti, di quelli che al primo impatto ti avvolgono nell'angoscia delle esistenze estreme.

Riporto di seguito le parole delle figlie che più mi hanno parlato:
Era una scrittrice lei, già dall’età di 15 anni scriveva le sue poesie, e anche se vivevamo in una condizione di povertà e pativamo spesso la fame, nostra madre perseguiva i suoi sogni.
E poi:
E a tutti quelli che, con noi, hanno pianto la morte di nostra madre vogliamo ricordare che lei la sua vita l’ha goduta, l’ha goduta tutta…
Penso che se una persona lascia questo mondo e i suoi figli riescono a dire questo di lei, vuol dire che ha speso bene il suo tempo.


foto da Skiwalker79

venerdì 5 marzo 2010

Cicatrici

Dal film "La bestia nel cuore" di Cristina Comencini:

Tante cose vorrei scriverti, ma una mi preme più di tutte: ci sono dolori da cui è impossibile guarire, il nostro è uno di questi. Ma questo non ci impedisce di camminare insieme agli altri con le spalle dritte e i piedi fermi a terra (...).
Una cicatrice è un segno indelebile, non una malattia.
La vita, quello che pensavamo ci avesse tolto, possiamo riprendercelo. Anche se per farlo  abbiamo dovuto cancellare per sempre il ricordo dei bambini che eravamo.


Lo dedico con tenerezza a tutti coloro che non hanno potuto essere bambini nemmeno da bambini.
Sebbene il bagaglio di cui la loro storia li ha gravati sia sicuramente ingombrante e spesso difficile da portare, nessuno di noi è destinato a strisciare in eterno.

Foto da Hop-Frog

martedì 2 marzo 2010

Ci immoliamo? Meglio di no...

Al momento di congedarmi da mio figlio di 3 anni per andare ad incontrare una cara amica e fare con lei quattro chiacchiere di piacere, mi chino amorevolmente su di lui e, temendo il suo dispiacere nel vedermi andare via, gli mento dicendo: “Mamma va  a fare una cosa noiosa, per questo non ti porta con sé. Tu ti potrai divertire a casa con i nonni e poi quando torno ti vengo a prendere”. Per tutta risposta mi guarda e mi dice: "Mamma, ma perché vai a fare le cose noiose? Vai a fare le cose belle!”. Touchée.

mercoledì 24 febbraio 2010

Quando la forma è sostanza

Sono sempre stata convinta che dal comportamento all’interno delle quattro mura domestiche si possano trarre importanti spunti per definire la nostra verità di persone,  indipendentemente da quella che è l’immagine che ciascuno di noi si sforza di portare all’esterno: osservatorio privilegiato hanno dunque le mogli e i mariti.

Ma un altro importante indizio che ci parla del nostro modo di stare al mondo e di come intendiamo la vita lo fornisce il modo in cui salutiamo chi incrociamo sulla nostra strada il lunedì mattina. Parlo del lunedì perché noto essere il giorno della settimana psicologicamente più faticoso e quello cui anche il rischio di infarto subisce un’impennata,  probabilmente legata all’essere di nuovo immersi negli impegni e nelle fatiche di una settimana ancora tutta da affrontare. Non voglio negare le fatiche che nelle svariate forme che assumono ci riguardano un po’ tutti,  però non mi piace pensarle come delle attenuanti al reato di omissione di saluto. Ci sono persone che entrando nel posto di lavoro biascicano dei suoni che solo in via ipotetica possono interpretarsi come un “buon giorno” o un “ciao”,  rigorosamente senza punto esclamativo; questo lo si può intuire dal tono,  ma che molto probabilmente potrebbero essere un “mi date tutti sui nervi solo a guardarvi”,  oppure “la vostra presenza mi ricorda che devo trascorrere le prossime otto ore in un posto che detesto con gente che non sopporto”. Il siparietto, cambiando luoghi e dettagli,  si può ripetere in diverse altre occasioni: nell’androne del palazzo in cui si abita quando capita di uscire in contemporanea alla signora del primo piano o a scuola dei propri figli quando si incrociano altri genitori.
E pensare che il saluto è un po’ come l'ingresso di certe case. E’ un luogo ideale di passaggio che favorisce il nostro ambientarci nella relazione con l’altro. Posso fermarmi all’ingresso e andar via o posso entrare negli altri ambienti della casa ma non posso passare in camera da letto senza essere passato per l'ingresso. A meno che io non sia Lupin.

Amo approfondire l’etimologia delle parole per varie ragioni,  di cui magari dirò in un’altra occasione. La parola CIAO poggia le sue radici nella Venezia di fine ‘700,  dove salutare in questo modo significava ‘sono tuo schiavo’, ‘servo  tuo’, ‘ai tuoi ordini’. Mi piace intenderlo quindi come una forma di stima, di riconoscimento nell’altro che incontro, di un potenziale valore per la mia vita. Nulla a che vedere con una prostrazione mortificante ovviamente.

Insomma  mi verrebbe da urlare al muso lungo di turno: “Guarda che ciò che stai schifando,  evitando di guardarmi negli occhi quando mi incroci, non sono io né il tuo lavoro né le fatiche che gravano sulle tue spalle,  ma la tua vita”.

Quando alcuni anni fa ho compreso che non è possibile godere del riposo, dello svago, della festa se prima non ho benedetto l’intera mia storia passata e l’intera mia esistenza presente elevandola tutta a dignità di Vita Piena, persino quella che prende forma tra il lunedì ed il venerdì, il mio approccio ai fatti e alle persone si   è rinnovato e arricchito di sostanza. Una sostanza che non può non esprimersi anche nella forma.

foto da lintmachine

sabato 20 febbraio 2010

Perché un blog?


Da qualche giorno si è concretizzata nella mia testa l’intenzione di aprire un blog tutto mio. 
Contemporaneamente, una domanda ha echeggiato nei corridoi della mia mente: perché vuoi farlo? Da quale bisogno nasce questa voglia di mettere in vetrina i tuoi pensieri? Mi spevantava e mi metteva a disagio l’idea della mia presunzione nel ritenere che le mie riflessioni potessero essere di interesse o di spunto per altri.
Se non cambio angolatura, mi sono detta, non ne esco e chiudo prima di avere iniziato.
Poi ho pensato che in fondo non c’è nulla di deprecabile nel volersi mettere in comunicazione, e quindi in relazione, con le persone, in qualsiasi forma lo si desideri fare.
Mi fa piacere pensare a questo spazio web come a un salottino accogliente in cui degli amici si possono ritrovare a chiacchierare di fatti che gli stanno a cuore e a commentare, secondo la propria sensiblità, notizie o pensieri altrui e, se si trovano a loro agio, possono portare anche altri amici. Che saranno i benvenuti.
E poi ho pensato alla magia e alle componenti della comunicazione e mi è tornato in mente uno scritto di Albert Mehrabian, psicologo statunitense studioso della comunicazione non verbale il quale ha dimostrato che solo il 7% del significato viene veicolato dalle parole pronunciate, mentre il 38% di esso viene comunicato attraverso la tonalità in cui vengono espresse, e il restante 55% non ha nulla a che vedere con le parole, bensì con la fisiologia. Il silenzio, uno sguardo, la postura, le smorfie del volto o il modo di respirare, l’abbigliamento o il profumo usato sono aspetti che "parlano" per noi e manifestano il nostro modo d’essere, l’universo dei nostri stati d’animo, ancor più delle nostre parole.
Credo proprio che sia plausibile che le proporzioni siano queste. Tutto ciò mi affascina ma mi risulta anche un po’ spaventoso. Il 93% di ciò che comunico sfugge in qualche modo al mio controllo e per chi come me (ma penso di essere in buona compagnia) è alla continua ricerca di un equilibrio tra il lasciar fluire liberamente il proprio essere e  tenere sotto controllo il piccolo mondo che ci circonda per vivere di rassicurazioni ingannevoli, non è per niente facile da accettare.
E allora mi sono convertita alle parole scritte, che posso leggere e rileggere, modificare e sistemare, corregere e ponderare illudendomi di ridurre al minimo la possibilità di essere fraintesa o di non essere ascoltata dal mio interlocutore di turno che, altrimenti, potrebbe essere troppo distratto dai miei vestiti, dal mio respiro o dal mio profumo…
La cosa che più mi manca, però, è il tè con i pasticcini.