mercoledì 23 ottobre 2013

Aggiungi i figli a tavola

Anni addietro la trovavo solo un’ inutile abitudine frutto dei nostri tempi, che vogliono i bambini come adulti in miniatura.

Col passare del tempo ho iniziato a coglierne l’aspetto ridicolo e un po’ ossessivo.
Oggi ritengo sia proprio una scelta profondamente sbagliata da un punto di vista relazionale  ed educativo.

Mi riferisco alla consuetudine, in ogni evento festoso più o meno formale della vita, che vede amici e parenti riunirsi in convivialità, di mettere i bambini in un tavolo a parte rispetto agli adulti.

Ho considerato, rifacendomi alla mia esperienza personale di genitore e all’ osservazione delle famiglie con bambini a me vicine, che un bambino di 7-8 anni potrebbe essere stato al tavolo insieme agli adulti in occasioni “comunitarie” non più di quattro-cinque volte, senza considerare ovviamente la primissima infanzia (anche se temo che, andando avanti così, non è lontano il tempo in cui predisporremo il tavolo dei bebè in autogestione).

Sappiamo bene che i bambini sono osservatori attentissimi, crescono e imparano molto più per imitazione dei comportamenti altrui (in primis dei genitori e dei familiari più stretti) che da quei nostri  bei discorsetti che ogni tanto gli propiniamo.
Da chi impareranno i nostri figli a rapportarsi agli altri? Chi osserveranno per acquisire modi corretti per stare a tavola senza sembrare scimmie selvatiche?

Del resto a tavola viviamo una buona parte delle nostre relazioni con parenti e amici.
Ci si ritrova, ci si racconta, si scherza, si litiga, ci si confronta, ci si spiega, ci si incontra per chiarirsi. Insomma c’è sostanza vera in quello accade intorno a un arrosto con le patate!
E allora perché privarli di un punto di osservazione così significativo? 

Li facciamo mangiare “a parte” perché  pensiamo debbano condividere le loro esperienze di vita? Vogliamo favorire lo scambio di opinioni su temi legati a istruzione o politica estera?
Ma ci siamo accorti che in realtà più bambini messi a tavola vicini spesso non parlano di niente? Bisticciano per un nonnulla tra il continuo via vai delle mamme che devono tagliare il cibo nel piatto, talvolta imboccarli, rimediare a disastri vari e sedare litigi che a volte sfociano in vere e proprie colluttazioni.

A dimostrazione del fatto che non ha senso questo loro stare insieme “a parte”, basti constatare che i pargoli non riescono a stare seduti più di tre minuti consecutivi.
Nel piatto restano inoltre gran parte delle pietanze che, troppo spesso, sono anche servite in anticipo rispetto agli altri commensali quasi si temessero malori per cali glicemici dovuti a sottoalimentazione andando così a riempire più che i loro stomaci il loro ego, dovessero mai sospettare di non essere il centro dell’universo.

Quale messaggio trasmettiamo perpetrando questa consuetudine?
Credo fermamente che non si renda alcun servizio ai bambini facendoli vivere in questa falsa espressione di libertà.
Si corre il rischio di teorizzare molto sui valori della cosiddetta famiglia tradizionale proponendo però (e alimentando), gli aspetti peggiori che purtroppo a volte la contraddistinguono e cioè confusione di ruoli, disordine e rapporti umani poco frequentati.

E pensare che per ovviare a tanto caos basterebbe compiere un semplice gesto della tradizione: mischiare intorno alla stessa tavola adulti e bambini, mettere insieme cioè le famiglie. Come si faceva una volta.


sabato 16 febbraio 2013

Dell' apertura domenicale dei negozi

Si dibatte molto sulla possibilità di riconsiderare l' apertura dei negozi nei giorni festivi, oltre che la chiusura a tarda sera nei giorni feriali. 
Non è un problema di poco conto per tutti coloro che si trovano a dover lavorare nei giorni in cui fino a qualche anno fa genitori e figli, liberi da impegni lavorativi e scolastici, potevano stare insieme, frequentare amici, godere del riposo e delle piccole e grandi gioie del giorno di Festa.
Alcune frange del mondo cattolico ne fanno addirittura una battaglia a difesa della famiglia (se ne può parlare, anche se, il nocciolo della questione non credo sia lì) e del terzo comandamento (da un prete, anni fa, ho imparato che prima di preoccuparci di santificare la Festa devo cercare di benedire l'intera mia vita, anche quella che va dal lunedì al sabato). 

Insomma, non può essere l'ultimo vagone a dare la propulsione e la direzione al treno. 

Credo infatti che se i negozi sono aperti con orario no-stop anche la domenica è perché la domenica, crisi a parte, fanno affari. E se fanno affari è perché rispondono al bisogno delle persone di fare acquisti che molto probabilmente non riescono a fare durante la settimana. Molti, infatti, rientrano a casa dal lavoro non prima delle 20.30. Tutto ciò ormai ci sembra normale. Ma non lo è. 
E' per questo che sarebbe interessante ripensare all'organizzazione della società nella sua interezza e del lavoro in particolare prima di focalizzare l'attenzione sulle serrande dei negozi. 

Mi servo di un'esperienza personale per provare a spiegarmi.

Da un paio di mesi a questa parte la vita della mia famiglia -composta da me, mio marito e un figlio di sei anni-è decisamente meno caotica di prima. I nostri ritmi sono rallentati, più conformi a quelli naturali dell' umana specie.

Prima, quando qualcosa non filava liscio, sembrava che ci abbaiassimo l'uno contro l'altro come cani rabbiosi, quasi a dover difendere le nostre ragioni con tempi "televisivi", poche battute al vetriolo e poi grande distanza emotiva. Ora abbiamo più tempo per parlare e l' onda di energia che serpeggia in ogni conflitto può prendersi lo spazio e il tempo che merita. Di questa decompressione la qualità della vita familiare ne ha indubbiamente giovato.

Uno di noi due va sempre a prendere a scuola il bambino che, di conseguenza, non è più sballottato il pomeriggio tra nonni e baby sitter. La mattina infatti ha smesso di chiedere "chi mi viene a prendere oggi?".
E, invece, quando vado io a prenderlo mi chiede: "anche oggi papà mi ha fatto la sorpresa di tornare a casa presto?" "Si, anche oggi." rispondo. "E vai!!!", esulta felice.

Le attività pomeridiane (a pagamento) a cui il bambino era iscritto si sono dimezzate, così abbiamo l'onore di passare del tempo in casa insieme per rientrare meglio in contatto tra noi dopo le troppo lunghe otto ore di tempo pieno che ormai i nostri figli sono costretti a trascorrere a scuola per ragioni che, a mio parere, nulla hanno a che fare con il loro bene.

Sarei stata orgogliosa di dire che quanto descritto è stato frutto di una nostra scelta consapevole (magari un po' "alternativa") e meditata invece tutto ciò è stato la conseguenza del fatto che mio marito, così come migliaia di altre persone in Italia, ha visto ridursi a quattro ore giornaliere l'orario di lavoro in attesa, probabilmente, che la società per cui lavora chiuda i battenti.

In mio intento non è certo fare del buonismo da quattro soldi e parlare delle opportunità che possono nascere da ogni crisi (finanche quella economica) anche perché sono innegabili le difficoltà psicologiche oltre che economiche di chi si ritrova "a spasso".

Voglio solo dire che trovo assurdo dover aspettare di subire un licenziamento per vivere una vita familiare in cui stiamo tutti più comodi e in cui la spesa la facciamo in mezzo alla settimana, di solito nel tardo pomeriggio. E la facciamo insieme.

giovedì 20 dicembre 2012

Fiona e le altre

Mi spiace ma non riesco proprio ad essere in accordo con il contenuto dell’ormai famosa lettera del maestro bocciato ai suoi allievi.

L’effetto immediato che mi ha suscitato è stato quello di trovarmi di fronte all’ennesima prova di eccellenza nello sport nazionale della lamentazione.
Rileggendola non ho potuto che constatare che fosse intrisa di italici buoni sentimenti, luoghi comuni e imprecisioni a larghe manciate.

Non nego che lo sfogo del maestro contenga anche parti di verità importanti e spunti  interessanti  ma da qui a fare di questa lettera un manifesto del profilo del bravo insegnante no.

Posso comprendere e accogliere umanamente l’amarezza di chi già si trova da anni nella scuola pubblica come precario e non vorrebbe vedersi soffiare il posto fisso da qualcuno che ad oggi non ha mai insegnato, tuttavia questa scelta fatta dal Ministero si potrebbe approfondire per poi magari  reputarla valida oppure continuare a non approvarla. 
E se, per dirne una, ai fini di un insegnamento orientato (anche) all'inserimento nel mondo del lavoro avesse un valore (o comunque non fosse un disvalore) l'esperienza lavorativa maturata dal docente al di fuori della scuola? In ogni caso non trovo giusto dare per scontato che tutto ciò che viene deciso “nei palazzi” sia aprioristicamente errato, irrazionale o frutto di malafede.

Quello che però più di tutto non accetto è che chi dice di avere a cuore la scuola (una scuola non nozionistica ma capace di aprire la mente al ragionamento e alla flessibilità) sostenga che un docente, qualsiasi sia la materia che aspira ad insegnare, possa permettersi di essere una persona incapace di svolgere semplici ragionamenti logico deduttivi.

Non ci vuole, infatti,  una mente superiore per comprendere che in riferimento alla domanda che il bravo maestro ha ridicolizzato, tre delle frasi proposte come possibile risposta non si possono dedurre neanche lontanamente dal testo della domanda (quindi sarebbe addirittura stato sufficiente ragionare per esclusione) e, se proprio vogliamo esagerare, penso che una persona di media intelligenza e cultura possa sapere che quando a Roma sono le 9 del mattino New York è ancora al buio e lo sarà ancora per qualche oretta. 

Le domande inoltre non erano due o tre: erano 50 e se il maestro è stato bocciato deve essere rimasto smarrito non solo di fronte a Pamela, Fiona e Gina. Tra l’altro tutte le domande da cui poi il software ha pescato casualmente il giorno della prova erano state messe a disposizione dei partecipanti con largo anticipo per potersi esercitare e permettere a ciascuno di approfondire eventuali punti di debolezza.

Nella lettera si arriva addirittura a contestare l’utilizzo del computer che valuta al posto di una persona quando, per il tipo di prova di cui si sta parlando, non esiste mezzo più sicuro e obiettivo di un computer, peraltro senza postazioni predefinite ma casuali a ridurre all’osso le possibilità di 'inciucio'.
Qualcosa mi dice che se, contrariamente a quanto è stato, a valutare questa prova ci fosse stato un essere umano, il Mr. Protesta che sonnecchia in ognuno di noi avrebbe affermato che l’opinione di un tizio qualsiasi è discutibile e influenzata da una serie di cose che vanno oltre la semplice preparazione del candidato (es. antipatia dermatologica, nervosismi contingenti per cause familiari, disturbi intestinali e così via.).

Del resto nessuno, per come è stata concepita la prova, pretendeva che la stessa misurasse competenze tecniche o capacità didattiche. Dica lo scrivente maestro dove ha tratto questa informazione. Per questo scopo ci sono le prove successive, tra l’altro strutturate in modo piuttosto articolato proprio a garantire la valutazione della capacità di insegnamento in senso ampio (mi riferisco ad es. alla simulazione di lezione che si aggiunge al normale esame orale).

Tutta la passione e la fantasia di cui questo insegnante e moltissimi altri suoi colleghi dispongono è elemento fondamentale e preziosissimo ai fini della costruzione di una buona scuola, è “sale” per gli studenti e merita tutta la nostra gratitudine e sostegno ma non può prescindere da competenza e attitudine al ragionamento. Siamo tutti sicuri che non avremmo nulla da ridire se nostro figlio avesse come professore un signore che sembra vantarsi di non sapere dove sorge il sole?

mercoledì 20 giugno 2012

Professione: reporter


Dagli Usa la nuova tendenza per i neo genitori di regalarsi un vero e proprio book fotografico professionale che dall’attesa ripercorre i momenti salienti della vita nascente (ecografie incluse) fino a ritrarre nonni e amici dai volti tesi nella sala d’aspetto dell’ospedale per arrivare poi fin dentro la sala parto e non farsi mancare di immortalare la gestante nelle più dolorose fasi del travaglio.

Molti di noi leggendo la notizia avranno pensato alla solita “americanata” e forse l’ho pensato anche io. Effettivamente, qualcuno può forse affermare che avere la foto della propria madre ritratta nella fase della massima dilatazione uterina avrebbe aggiunto qualcosa alla ricostruzione della propria identità personale?  Credo proprio di no. Eppure sono convinta che ben presto abbracceremo anche in Italia questa morbosa abitudine visto che, a pensarci bene, siamo già sulla buona strada.

Complici forse anche i social network, che ci hanno abituato a collocarci in una vetrina perpetua, sembra che siamo tutti più impegnati a mostrarci e a mostrare che a vivere, continuamente  alla ricerca delle “pezze d’appoggio” per attestare di aver fatto cose e percorso le tappe cruciali della nostra vita.

Basti pensare al comportamento della maggior parte di noi genitori alle recite di fine anno dei nostri figli: quello che dovrebbe essere un piccolo teatrino di una scuola elementare, in cui ciascuno potrebbe contattare la commozione nel vedere i propri figli emozionati e magari un po’ cresciuti, si trasforma in un vero e proprio set cinematografico.
Indubbiamente vivere a piene mani le emozioni può risultare a volte spaventoso o, perlomeno, siamo disabituati a farlo. E allora ci rassicura frapporre quell’occhio artificiale  tra il nostro sguardo di padre e di madre e la realtà della vita che ci scorre sotto gli occhi.
Quanti poi hanno la mania di fare interminabili filmini durante i loro viaggi che, quando arriva il fatidico giorno in cui sei costretto ad esserne spettatore, dentro di te ti chiedi se veramente è rimasto del tempo, a telecamera spenta, per godersi la vacanza.

Per non parlare delle riprese e delle centinaia foto durante la celebrazione di battesimi, prime comunioni, matrimoni. Del resto non è un bel ricordo da tenere nel cassetto l'otturazione del premolare del celebrante che intona il santo?
Se proprio dovessi ammorbidirmi sull' opportunità di ammettere le telecamere durante le celebrazioni quasi quasi, come scrive provocatoriamente Concita De Gregorio nel suo ultimo libro, lo farei per i funerali: occasioni in cui circolano emozioni forti, importanti, momenti in cui camuffare i sentimenti è più difficile, in cui 'si possono rimettere a posto tutte le tessere del puzzle, ricomporre la memoria' di una vita intera.
Se ancora non è accaduto è forse perché i funerali sono momenti in cui caliamo la maschera, risultiamo troppo veri e vulnerabili, non abbiamo la testa per offrire il nostro profilo migliore e dunque siamo impresentabili.

Se continueremo a stare in ogni circostanza col telefonino alzato al cielo vivremo il paradosso di voler catturare per sempre momenti mai vissuti realmente che, quando saranno riproposti, non potranno parlare della nostra storia perché noi lì non ci siamo stati con una presenza piena, saranno solo una fredda riproduzione senz’anima di fatti accaduti.

In fondo, per raccontare la storia propria e della propria famiglia ad un figlio e farne tesoro, di fotografie ne basterebbero davvero poche se solo si avesse la pazienza e la capacità de mettersi in gioco attraverso il ricordo ed il racconto delle proprie esperienze passando anche attraverso le sensazioni che abbiamo provato.

Coltivare il ricordo attraverso la narrazione dei fatti ha un valore inestimabile perché restituisce veri e propri pezzi di vita e non solo fatti.
Noi adulti abbiamo l’ arduo compito di aiutare i nostri figli ad interpretare la realtà andando oltre ciò che accade e che si vede. Non possiamo abdicare a questo onore facendo solo i cronisti. Dobbiamo metterci la musica.

martedì 6 dicembre 2011

State tranquilli

L' assemblea dei genitori alla scuola (pubblica) di mio figlio si è aperta con una rapida presentazione della maestra di religione (cattolica) che, parlando a grandi linee del programma di quest'anno, ha annunciato rassicurante: "Come forse i vostri figli vi hanno già raccontato, stiamo parlando del Natale e ne parleremo ancora a lungo visto che si tratta di una festa allegra adatta ai bambini. Per quanto riguarda la Pasqua vi voglio dire di stare tranquilli perché nessuno parlerà di morte-crocefissione-resurrezione. Parleremo della Pasqua come della festa della primavera". Silenzio e sorrisi di serena di approvazione. E si passa a parlare della data della prossima gita.


Io sarei stata più tranquilla se avessi sentito che la morte non è un argomento tabù perché fa parte della vita e che se ne può parlare, pefino ai bambini. Nel modo giusto e adatto a loro, ma si può. E, tra l'altro, quale occasione migliore della Pasqua per parlare della morte in una prospettiva di Vita e felicità. O forse vogliamo delegare alla festa di Halloween le risposte al Grande Mistero? 
E poi sappiamo bene che tutti i non detti non solo non impediscono il formarsi di domande nella testa dei bambini ma anzi generano angosce enormi e profondissime.

Questo episodio me ne ha ricordato un altro vissuto alcuni anni fa: all'ultimo incontro di un corso di preparazione al Battesimo le coppie presenti avevano la possibilità di scegliere le letture per il giorno della cerimonia tra una rosa di brani suggeriti dal sacerdote. Tra quelle proposte è stato scartato senza possibilità di appello il capitolo 6 della lettera ai Romani:
 "O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? (....) Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua resurrezione."
Queste stesse parole sono state considerate dai più come "di cattivo gusto in un contesto gioioso", "non adatte ad un battesimo", "troppo tristi" e così via. 
Eppure esprimono un concetto che è il cuore vivo della fede cristiana  e noi non eravamo all'inaugurazione di un locale notturno, eravamo in una parrocchia al termine di un ciclo di incontri sul Battesimo.

Perché allora tutta questa paura di parlare (ai bambini) della morte?

Se accettiamo senza battere ciglio di giocare il jolly della festa della primavera per non parlarne è perché probabilmente siamo noi adulti a non avere risposte e a non accettare di averne una gran paura: del dolore, del distacco dalle persone care, dell'ignoto. Niente di più umano, diffido di chi vanta grandi certezze e non ammette tremori, soprattutto di fronte alla morte. 

Ciò non toglie che anche le nostre non risposte, le nostre tristezze e paure possano essere raccontate ai nostri figli, ovviamente in maniera adeguata alla loro età e alle loro richieste, e fare parte del loro percorso di crescita senza venderci ai loro occhi per ciò che non siamo. La loro testa è già troppo piena di supereroi.

venerdì 2 settembre 2011

Piccoli Buddha crescono


Che tu sia un fervente frequentatore  di gruppi parrocchiali o un fricchettone da centro sociale (o, magari, entrambe le cose contemporaneamente), un affermato professionista o un precario squattrinato, che tu creda fermamente nel valore della sobrietà o i tuoi usi siano eccessivi come la giacca di paillettes di un comico di avanspettacolo, molto probabilmente non farai mancare a tuo figlio, almeno una volta nella vita, una festa di compleanno 'all inclusive'.

Fino a circa una decina di anni fa una festa iniziava con l'arrivo del  primo invitato che, salutando il festeggiato, gli  porgeva un pacchetto ed aspettava, curioso, di vedere l’espressione che l’amichetto avrebbe fatto alla vista del regalo:  poteva essere uno scortese ma sincero ‘ce l’ho già’ oppure un timido  ‘grazie’  o ancora  un entusiasta ‘che figo!! Mammaaa vieni a vedereeee!!!’ o magari una faccia un po’ delusa.

Oggi no. Se sei invitato ad una festa di bambini  devi sapere che non ci sarà nulla di umano né di poetico nel gesto del dono. Per vedere scartato il tuo pacchetto dovrai, infatti, aspettare il tribale momento dello SCARTALACARTA, trionfo dell’opulenza e, al contempo, dell’istigazione all’invidia.

Il diseducativo (a mio avviso, si intende) rituale solitamente si svolge così: il festeggiato si pone più o meno al centro di un emiciclo di compagni che lo incitano ad aprire uno ad uno la montagna di pacchi che amorevolmente la mamma scodinzolante e fiera gli porge dopo aver letto sulla busta il nome del benefattore. In mancanza dell’apposizione del nome si procede con il 'riconoscimento della busta', fatto con una specie di ‘confronto all’americana’. Se vedete qualcuno che in questo momento sgattaiola verso il buffet molto probabilmente è venuto a mani vuote (ha tutta la mia stima).
Il bambino, freneticamente, mostra quanto ricevuto in dono alla platea urlante senza, ovviamente, ringraziare né aver capito bene chi sia l’artefice di questo o quel regalo.

Al termine di questo cerimoniale, come da copione, riprendono i festeggiamenti, sempre uguali negli anni e rigorosamente a pagamento: animatori dal sorriso plastificato (che tradisce spesso il desiderio di mollare quattro ceffoni ai pargoletti fuori controllo e, spesso, maleducati), che si barcamenano tra uno spettacolo di marionette, qualche magia e un po’ di  baby dance nella speranza (da parte mia) che prima o poi qualcuno decida di liberare tra i festanti frugoletti un vero alligatore che possa finalmente porre fine all’annosa questione relativa al verso del coccodrillo.

Insomma, chi di noi vorrebbe rivedere lo stesso film dieci volte in un mese? Immagino quasi nessuno. E allora perché ci sembra normale che i nostri figli frequentino feste di compleanno in cui tutto ciò che accade è già noiosamente noto ancor prima di iniziare?

Alla fine della festa, poi, i genitori del piccolo Buddha di turno cercano con fatica una soluzione per il trasporto del carico dei regali fino a casa: affittiamo un camion dei traslochi? Facciamo dieci viaggi? Ci serviamo degli sherpa? E se invece, più banalmente, chiedessimo agli invitati di non portare nulla perché nostro figlio è già pieno di giochi e vestiti,  i parenti più stretti gli hanno già fatto dei regali di tutto rispetto e poi, in fondo, sarebbe felice anche solo di fare festa in compagnia degli amichetti? E se individuassimo un oggetto che nostro figlio desidera tanto e facessimo convogliare su di esso il contributo dei partecipanti?
Insomma basta un po’ di fantasia per trovare un’alternativa al “così fan tutti” e, soprattutto, basta volerlo.

Qualcuno potrebbe reputare eccessiva la contrarietà che esprimo rispetto ai comportamenti descritti.
Il fatto è che essi, in quanto gesti sociali, sono dei segni e, come tali, sarebbe bello che fossero carichi di significato, scelti e presentati con la cura che meritano da parte delle famiglie.

Inoltre, questi modi standardizzati di agire altro non sono che una rappresentazione sintetica del modello educativo predominante oggi, tendente a generare persone autoreferenziali, incapaci di godere del ‘chi’ ma solo del ‘cosa’ e, per di più, con scarsa attitudine all’utilizzo della fantasia come risposta alle situazioni della vita. In sintesi, degli infelici.

A volte penso quanto sarebbe davvero divertente e formativa per i bambini una festa in cui anche i genitori si mettono in gioco, nel senso letterale del termine, senza bisogno di animazione a pagamento. In fondo, si sa, i piccoli imparano a comportarsi, a relazionarsi e anche a divertirsi osservando il comportamento di noi adulti, al di là dei discorsi precotti che tendiamo a fargli. E poi avrebbero finalmente qualcosa da raccontare!

Non me ne vogliano parenti, amici e conoscenti che dei criticati rituali nel tempo mi hanno fatto spettatrice. Sapete, tra i propositi che solitamente si fanno per la nuova stagione al rientro dalle ferie, quest’ anno ho messo in pole position di dire un po’ più spesso ciò che penso.


sabato 28 maggio 2011

Era proprio necessario?

Si è detto e scritto tanto intorno alla beatificazione di Giovanni Paolo II e, in questo mare magnum di notizie, testimonianze, racconti biografici e motivazioni teologiche, c’è da chiedersi quale sia il nucleo essenziale della santità di quest'uomo e, soprattutto, quanto l’aspetto miracolistico ne costituisca il fondamento.

Vado a cercare la risposta nelle parole pronunciata da Benedetto XVI proprio durante l' omelia della Messa di beatificazione: "Il suo messaggio è stato questo: l’uomo è la via della Chiesa, e Cristo è la via dell’uomo".

E poi, forse l’elemento emotivamente più forte e popolare, soprattutto negli ultimi anni del pontificato, "la sua testimonianza nella sofferenza".

Proprio quell’ abbracciare la croce del limite fisico è alla base della sua vicinanza affettiva con tanta gente che lo ha visto vivere la malattia con dignità e caparbietà, con tenerezza e rabbia. Quanto mi colpisce, oggi più di allora, il pugno battuto sul leggìo durante l'Angelus per la frustrazione di non riuscire a parlare...

Alla luce di questo, dunque, la guarigione dal Parkinson di Suor Marie Simon-Pierre era proprio necessaria per suggellare la santità di Giovanni Paolo II? E quale è, più in generale, il senso del miracolo come condizione indispensabile nel percorso di canonizzazione?

La testimonianza della suora in fondo non descrive altro che lo sgomento, la paura, la debolezza di una qualsiasi persona che, colpita dalla malattia, vede la sua vita prendere un corso di sofferenza e menomazione: è la malattia, è il calice che ciascuno di noi vorrebbe vedere allontanato dalla propria bocca.

Non discuto la veridicità di ciò che è stato raccontato e, credo, comprovato con indagini approfondite. Mi chiedo, però, cosa può aggiungere questo aspetto miracolistico alla santità dell’uomo. E poi, una fede matura può nutrirsi dell'incantesimo?

Trascinarsi giorno dopo giorno sotto il peso di una croce che a volte sembra insostenibile e che solo il profondo e intimo rapporto con Cristo può contribuire a sopportare fino a chiedergli la forza di rimanere lì, pur non comprendendone il senso, piuttosto che essere esonerato dalla prova, questo sì, un grande miracolo.

E poi, lo dice anche Jovanotti nel testo di una sua canzone, la cura è spesso nascosta dentro la malattia. A me questa sembra una grande verità.


venerdì 1 aprile 2011

Ti piace il gusto caramello?

Ho appuntamento con un amico di fronte alla gelateria.
Mentre aspetto, una macchina si accosta al marciapiede e si ferma. Dentro un uomo e una donna sulla sessantina avanzata, sembrano persone semplici.
Credo proprio che siano marito e moglie, di quelli collaudati dagli anni e dalle esperienze familiari. Sorprendentemente (ancora) si guardano in faccia quando si parlano.
Probabilmente hanno voluto togliersi lo sfizio di un buon gelato fuori orario, alla faccia del colesterolo un po' altino all'ultimo controllo.

Lei scende ed entra in gelateria, lui un po' sornione rimane in macchina.
Dopo qualche secondo lei esce e, a dispetto di chi pensa di possedere la conoscenza assoluta dell'altro e dice del proprio marito "per me non ha segreti", "lo capisco al volo", "so tutto di lui" e bla, bla, bla, gli chiede a voce alta "Franco, ti piace il gusto caramello? Te lo faccio mettere?"
No, non gli piace.
Lei poi esce con due coni di tutto rispetto e si vivono vicini e complici il loro momento godereccio.
Applaudo con gli occhi e ringrazio col cuore per questa scena che, non so bene perché, è stata una piccola lezione.

mercoledì 30 marzo 2011

Non lo fo per piacer mio.....

Un ricerca durata anni ha messo in evidenza una certa correlazione tra religione e obesità.

In prima battuta la notizia si presta a facile ilarità ma io, che oltre al corpo ho anche l'anima un po' sovrappeso, non mi lascio sfuggire un'occasione così appetitosa per esprimere un sospetto.

Premesso che la ricerca di cui sopra sembra non aver trovato le motivazioni alla base di questo trend, io voglio provare ad avanzare delle ipotesi.

In tutti gli anni in cui ho frequentato l'ambiente parrocchiale, da ragazzina ad adulta, non ricordo di aver sentito parlare con adeguata enfasi dell'importanza della cura di sé e del proprio corpo parallelamente all'approfondimento spirituale.

Ho dovuto "bazzicare" altri luoghi per sentirmi dire che corpo e anima sono un tutt'uno inscindibile e che queste due componenti non possono evolversi separatamente, che il corpo non è solo uno strumento con cui "non fare" ma è un luogo da abitare e vivere e che non può essere ignorato nel difficile percorso della conoscenza di sé.

Il nostro corpo parla di noi e va ascoltato come vanno ascoltate le emozioni e le inquetudini dell'anima.

E' importante dire ai ragazzi (e, purtroppo, anche a molto adulti) che nessuna espressione del nostro corpo può essere di per sé stessa fonte di vergogna o di colpa ma tutto va contestualizzato, interpretato e compreso nell' unicum della persona e che anche la meditazione più alta non può prescindere dalla corporeità.

So che esistono dei contesti di nicchia dove tutto ciò viene detto e me ne rallegro tuttavia si tratta ancora di eccezioni e, a riprova di ciò, basti osservare che le madri di famiglia "più sante" che circolano in ambiente parrocchiale sembrano esseri mitologici metà uomo e metà novizie. Da lontano si distinguono a fatica dai loro mariti e da vicino ti viene voglia di inseguirle con una striscia depilatoria perché possano riprendere le sembianze di donna. Anzi di femmina.

Il loro aspetto lascia pensare che abbiano messo da tempo sotto chiave la loro parte sessuata.
Sarebbe interessante comprendere perché l'hanno fatto e anche quanto dolore queste scelte, più o meno conscie, portano nelle loro vite e nelle loro relazioni familiari.

foto da Flickr

venerdì 11 marzo 2011

Carta, penna e calamaio

E' ufficiale: le nanotecnologie sono una copertura, siamo ancora al tempo degli amanuensi.

Innumerevoli gli uffici della Pubblica Amministrazione con i quali negli ultimi anni sono entrata in contatto: dalle ASL al Tribunale dei Minorenni, dai Servizi Sociali all' INPS, dall' Anagrafe all' Agenzia delle Entrate.

Ciò che con rammarico ho constatato è che, nella nostra "epoca www" in cui il digitale la fa da padrone e i RIS di Parma dichiarano che i bastoncini di pesce che ha mangiato la vittima prima di essere uccisa erano scaduti,  io non posso inviare documentazione ad un ufficio pubblico o fissare un appunatamento con un dirigente tramite mail.
E non perché i pubblici dipendenti non siano dotati di casella di posta elettronica ma perché spesso non la utilizzano (molti addirittura dichiarano di "non avere dimestichezza" con lo strumento).

A volte penso che certi impiegati abbiano il bisogno fisico del sentir frusciare le scartoffie sulla scrivania e godano del suono sordo del timbro che, in due tempi, batte sul tappetino di inchiostro e sul documento da nobilitare.

Il massimo che si può ottenere dai pochi impiegati "d'avanguardia" è l'accettazione dell'invio di un fax. Per inviarlo, però, bisogna essere degli inguaribili ottimisti perché nessuno ci assicura che, in prossimità dello strumento ricevente, ci sia vita.
La stanza potrebbe essere utilizzata come deposito di sedie rotte o  la persona che magari per caso passa di lì potrebbe tirar via la presa dal muro in preda al panico per il sibilo a lei ignoto che lo strumeto emette.
Nella migliore delle ipotesi quel foglio inviato lo prenderà qualche impiegato dal cuore ecologico che lo riciclerà per far disegnare il proprio bambino a casa.

Per non parlare del telefono che può squillare per ore senza che nessuno risponda e, per un intuito molto personale che col tempo si acquisisce, qualcosa ti dice che qualcuno dall'altra parte c'è. Probabilmente ha solo fatto un corso di meditazione zen per riuscire ad ignorare il trillo insistente e continuare a disquisire con la collega di come sia meglio utilizzare la cipolla al posto dell' aglio per un sughetto all'arrabbiata.

Per ritirare una convocazione del Tribunale mi sono dovuta recare presso la Casa Comunale dove un signore dall' aria omerica mi ha fatto firmare in un registro di dimensioni abnormi tipo diario di San Pietro all'accettazione delle anime in Paradiso per prelevare un banalissimo foglio A4 (a questo punto mi saerei aspettata un rotolo di pergamena) in cui mi si chiedeva di presentarmi tale giorno a tale ora nell'ufficio del giudice tal dei tali.

Quando abbiamo aperto la pratica di adozione al Tribunale dei minori di Roma, tutta la documentazione doveva essere presentata in originale da ciascun coniuge e immaginate che tenerezza quando sotto i nostri occhi l'impiegata allo sportello ha riposto le scartoffie rispettivamente in una cartellina rosa e in una celeste!

Insomma, se volete capire veramente cos'è un acceleratore di particelle non serve andare al Cern di Ginevra, basta avere bisogno di un certificato medico legale da richiedere alla Asl di zona e vi assicuro che le vostre "particelle" gireranno alla velocità della luce.
Le mie ancora non accennano a rallentare.